Rino B. Veneziani (notizie 1900-1025)
Gesso, 1920, cm 42x17x11
Mantova, Biblioteca Comunale Teresiana
La donazione di cimeli ardigoiani che Piero Preda nel 1929 offre al Comune di Mantova comprendeva, oltre ai due busti in gesso, anche la forma e la maschera in gesso del filosofo, che probabilmente fu realizzata su richiesta di Preda stesso.
Andata persa la forma, in Biblioteca Teresiana si conserva ancora la maschera che fissa la fisionomia del filosofo così come esso appariva sul letto di morte.[1]
Gian Francesco Marini, che fu tra coloro che frequentarono la casa di Ardigò nelle sue ultime settimane mantovane, nel ricordare i tragici giorni dopo il tentativo di suicidio, annota che quanto fu deposto nella bara, tra i fiori che amava, profusi da mani gentili, sembrava dormisse placido.[2]
Tra quanti frequentavano la casa di Ardigò in via Ippolito Nievo, e fu accanto al maestro sino alla fine vi era anche lo scultore Rino Veneziani che del filosofo ci lasca, oltre a due busti, anche un disegno sul letto di morte, pubblicato nella biografia di Ardigò del Marini.[3]
Proprio l’intimità dello scultore con il filosofo suggerisce l’ipotesi che lo stesso Veneziani possa essere l’autore anche della maschera funeraria in gesso conservata presso la Biblioteca. L’osservazione diretta della maschera suggerisce inoltre la possibilità, seconda l’abitudine dell’epoca di un successivo utilizzo della maschera per la realizzazione dei due busti oggi conservati in Biblioteca Teresiana.
[1] La maschera mortuaria è un calco spesso realizzato in cera o in gesso, che raffigura il volto di un defunto. Di origine antichissima, venivano spesso realizzate per i personaggi illustri, come ricordo o come base per realizzarne ritratti.
[2] Ardigò tento per la seconda volta il suicidio il 27 agosto del 1920. La sua agonia fu lunga. Il Marini che fu testimone oculare di quei tristi momenti racconta: Accorremmo quando il Filosofo, immerso nel sangue che gli fluttuava dalla ferita, era svenuto al suolo. Lo soccorremmo, lo sollevammo. L’affezionato Dottor Francklin Vivenza lo medicò. La ferita era lieve, molto il sangue perduto. Con terrore il Vivenza, scoperse che il femore era rotto. Era la fine di ogni speranza. Quando il Vegliardo riaprì gli occhi, mi disse con voce implorante: Lei che mi vuol bene, mi faccia morire, mi faccia morire – e ripeté la preghiera al Vivenza, a Veneziani (sic!) a Cestaro, a Mancino… Ma poi si acquietò, e passarono i giorni che erano di illusione, di speranza quasi. Quando giunse il Comm. Preda, egli lo baciò e parve rivivere...; morì il 15 settembre 1920 e tutta Mantova accorse a rendere il supremo tributo d’omaggio. Cfr. Marini G.F., Roberto Ardigò, Milano 1921, pp. 23-24.
[3] Marini G.F., Roberto Ardigò, Milano 1921, p. 22.